Lgiudizio.jpg (45671 byte)


40. Giudizio universale
(alta definizione)

Tutto è chiaro e distinto. Il nostro occhio è subito calamitato dal centro focale, il solare Cristo Giudice, incorniciato dalla mandorla iridata. L’iride – l’arcobaleno – mandato da Dio come segno dell’Antica Alleanza dopo il diluvio universale, tocca il suo apice simbolico in Cristo, Nuova ed Eterna Alleanza. Lui, il Pantocrator, siede sul trono di verde diaspro sotto il quale s’intravedono i simboli dei quattro evangelisti. Mostrando le piaghe gloriose, viene a giudicare la terra.

Tutto di Lui è aperto verso gli eletti, alla Sua destra: lo sguardo, il capo, la piaga del costato, la mano (mentre l’altra, la sinistra, è chiusa sui reprobi dell’inferno). Attorniano la mandorla i serafini. Giudici a latere sono i dodici apostoli, in trono, a semicerchio. Alla destra di Cristo: Pietro, Giacomo, Giovanni, Filippo, Simone e Tommaso. Alla Sua sinistra: Matteo, Andrea, Bartolomeo, Giacomo minore, Giuda Taddeo e Mattia.

La trifora non è solo apertura luminosa da cui al tramonto entra il rosso riverbero della speranza ("rosso di sera…"); è soprattutto trono dal quale Dio uno e trino, nella forma visibile di Cristo, scende e giudica. I due fiorellini di sei petali ciascuno, incorporati nella trifora-trifoglio, perfettamente corrispondono ai due gruppi di sei apostoli scesi con Lui. Fanno semicircolare corona al trono-trifora gli altri otto cori angelici. Alla Sua sinistra: angeli, arcangeli, principati e potestà. Alla Sua destra: virtù, dominazioni, troni e cherubini. Sembrano ordinatamente distribuiti sulle gradinate di un teatro, in simmetriche schiere impostate sul modulo (altra evocazione trinitaria) della terzina. Sono guidati dai vessilliferi. Michele e Gabriele, i più vicini a Cristo Giudice, reggono la spada e il vessillo biancocrociato dei Cavalieri del Santo Sepolcro.

Alla sommità del grande affresco, altri due angeli stanno arrotolando lo spesso tappeto della volta celeste (è la fine del mondo!) su cui si stagliano l’aureo sole e la bianca luna; quasi fosse un tessuto double face, sul retro dell’azzurro-umano (il cielo come lo vediamo noi, dalla terra), si manifesta il rosso-divino (che si è lasciato pregustare all’aurora e al tramonto), e dietro compaiono – auree e gemmate – le porte dell’empireo eterno: "i cieli nuovi e la terra nuova".

Anche alle spalle di Cristo Giudice, vestito di rosso e azzurro, sfolgora l’oro. Giotto non ha abolito l’oro bizantino: solo, memore del Cantico delle creature di San Francesco, ha messo in scena il reale nei suoi colori naturali, perché in essi è l’impronta della mano creatrice di Dio, perché di essi si è rivestito il Verbo eterno, perché entro il loro alveo si gioca l’umana partita della libertà. "L’evento della redenzione è una storia ‘umana’. I personaggi, anche se hanno il volto ‘trasumanato’ dalla stupenda bellezza della ‘Grazia’ – scrive l’ottimo Bellinati – poggiano i piedi sulla terra, con il suo verde, i fiori, i colori, strettamente legata alla vita quotidiana dell’uomo". Così – col proprio pennello, come il quasi coetaneo Dante con la penna – Giotto ha collaborato coi papi e coi santi (Domenico e Tommaso, Francesco e Antonio…) a combattere lo spiritualismo dell’eresia catara (antenata dell’odierna new age). Lo splendore dell’oro permane, ma come Destino ultimo.

Dalla mandorla sgorgano i quattro infuocati fiumi infernali, che trascinano nell’abisso torme di dannati spinti giù da plumbei demoni. Il primo fiume travolge gli usurai, connotati dal bianco sacchetto di sporco denaro legato al collo. Strozzini in vita, eternamente strozzati, in una dantesca pena del contrapasso (Reginaldo Scrovegni, l’usuraio padre di Enrico, è posto dall’Alighieri nel Canto XVII dell’Inferno). Più in basso di tutti loro, impiccato e sventrato, sta Giuda.

Alla sinistra di Cristo Giudice, sinistro giganteggia Lucifero, modellato sul mosaico di Coppo di Marcovaldo che – da circa mezzo secolo – campeggiava nel Battistero di Firenze. Con mani umane e con zampe bestialmente artigliate sta straziando alcune anime; tre le divora, con la bocca umana e con le due bocche del "serpente antico" che gli esce dagli orecchi. Fa la stessa cosa l’orrido leviatano – il biblico dragone, emblema del potere di questo mondo – che funge da trono di Lucifero. Attorno è "l’etterno dolore": pene indicibili cui viene sottoposta la "perduta gente", su cui infieriscono i diavoli. Molte di queste figure Giotto le fece eseguire dai suoi collaboratori.

Al caos – disordine e bruttura – dell’inferno si oppone, alla destra di Cristo Giudice, la tripartita ascendente schiera dei salvati, nei cui volti è l’inconfondibile impronta della mano di Giotto: sotto, le anìmule che – di nuovo rivestite della carne – fuoriescono stupite e oranti dai meandri della terra; poi la grande processione degli eletti, clero (vescovi, sacerdoti, diaconi, i fondatori degli ordini religiosi…) e popolo, donne e uomini che hanno santificato la vita attraverso arti e mestieri (il quarto da sinistra, con un bianco copricapo, sarebbe l’autoritratto di Giotto); sopra, guidati da Maria, gli antichi santi dell’Antico Testamento e della Chiesa primitiva.

Sotto la croce, inginocchiati, Enrico Scrovegni, rivestito dell’abito viola della penitenza, e Altegrado de’ Cattanei – il dotto canonico della cattedrale, che collaborò con Giotto all’impianto complessivo dell’opera – offrono il modellino della Cappella a Maria, ai cui lati stanno S. Giovanni evangelista e S. Caterina d’Alessandria. La Madonna – che viene rappresentata più di venti volte in questa Cappella a lei dedicata – è la mediatrice tra la fragilità umana e la misericordiosa giustizia divina.

L’ultima immagine che Giotto discretamente suggerisce all’osservatore attento, è un minuto dettaglio: ai piedi della grande croce (e quasi a darle gambe perché muova incontro all’uomo) sta una piccola figura umana. Partecipa all’esaltazione della croce: due grandi angeli la reggono, e lui – se ne vedono i piedi, uno scorcio del capo – si stringe al cuore il dulce lignum. Un piccolo fragile uomo – buon ladrone, cireneo, ciascuno di noi – che si è imbattuto in quell’Uomo, l’ha riconosciuto Dio, gli si è affezionato: porta quindi "il giogo soave, il carico leggero", nella prospettiva alta della felicità, la cui caparra è – qui e ora – la letizia del "centuplo quaggiù".