Notturno 1
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Questa sonata per pianoforte manifesta in modo evidente lo struggimento del cuore umano che i romantici intendevano esprimere. Si tratta di un sentimento che viene provocato da uno sguardo razionale sulla realtà. La realtà infatti suscita una attesa, un desiderio, una promessa che rimanda a qualcosa che sta oltre la realtà stessa: il senso della realtà è un’altra realtà, verso la quale la ragione umana si protende pur non potendo raggiungerla. In questa sonata Chopin si ferma, favorito dalla calma della notte, a considerare questo misterioso sentimento di nostalgia su cui il cuore umano inevitabilmente giunge. E riguardo alla notte è utile rileggere le parole che Peguy attribuisce al pensiero stesso di Dio riguardo all’uomo:
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Conosco bene l’uomo. Sono io che l’ho fatto. E’ uno strano essere. Perché in lui entra in gioco questa libertà che è il mistero dei misteri. Gli si può ancora chiedere molto. Non è troppo cattivo…Quando si sa come prenderlo gli si può ancora chiedere molto. Farlo rendere molto. E Dio sa se la mia grazia sa prenderlo, se con la mia grazia so prenderlo. Se la mia grazia è insidiosa, abile come un ladro. E come un uomo che caccia la volpe. Io so prenderlo. E’ il mio mestiere. E anche questa libertà è mia creazione. Gli si può chiedere molto cuore, molta carità, molto sacrificio. Ha molta fede e molta carità. Ma quel che non gli si può chiedere, Dio buono, è un po’ di speranza. Un po’ di fiducia, insomma, un po’ di distensione. Un po’ di resa, un po’ di abbandono nelle mie mani, un po’ di desistenza. Lui si irrigidisce sempre. Ora tu, notte figlia mia, ci riesci, a volte, lo ottieni a volte questo. Dall’uomo ribelle. Che acconsenta, questo signore, che si arrenda un po’ a me. Che distenda le sue povere membra stanche su un letto di riposo. Che distenda un po’ su un letto di riposo il suo cuore indolenzito. Che la sua testa soprattutto non funzioni più. Funziona già troppo, la sua testa. E lui crede che sia una cosa seria, che la sua testa funzioni così. E i suoi pensieri, no, quel che lui chiama i suoi pensieri. Che le sue idee non girino e non sbattano più nella sua testa e non suonino più come semi di zucca. Come un sonaglio in una zucca vuota. Quando si vede cosa sono, quel che lui chiama le sue idee. Povero essere. Non mi piace, dice Dio, l’uomo che non dorme. Quello che brucia nel suo letto di inquietudine e di febbre… Colui che la sera andando a letto fa piani per l’indomani. Costui non mi piace, dice Dio. Lo sciocco, non sa neanche come sarà fatto il domani. Non conosce neanche di che colore sarà il cielo. Farebbe meglio a dire la sua preghiera. Non ho mai rifiutato il pane del giorno dopo. Colui che è nella mia mano come il bastone nella mano del viaggiatore, costui mi è gradito, dice Dio. Colui che è nelle mie braccia come un neonato che ride, e che non si preoccupa di niente, e che vede il mondo negli occhi di sua madre e della sua balia, e che non lo vede e non lo guarda che lì, costui mi è gradito, dice Dio. Ma colui che fa dei calcoli, colui che in se stesso, nella sua testa, per l’indomani lavora come un mercenario. Lavora spaventosamente come uno schiavo che gira una ruota in eterno (e detto fra noi come un imbecille) Ebbene costui non mi è gradito affatto, dice Dio. Colui che si abbandona mi piace. Colui che non si abbandona non mi piace, è così semplice. Colui che si abbandona non si abbandona ed è l’unico a non abbandonarsi. Ora tu notte, figlia mia, mia figlia dal grande manto, mia figlia dal manto d’argento, sei l’unica che vince talvolta questo ribelle e fa piegare questa dura cervice.
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