GIACOMO LEOPARDI

al culmine del suo genio profetico

 

Sintesi del testo Le mie letture di L.Giussani pp. 9-31

 

Giussani riporta la testimonianza di quello che la poesia di Leopardi ha suscitato e suscita nel suo animo di uomo e di credente, a cominciare da quando tredicenne aveva fatto di questo autore la sua lettura quasi esclusiva. Così Giussani ha raggiunto la convinzione che la ‘negazione’ metafisica in Leopardi è in realtà una posizione imposta dal sensismo allora dominante, mentre tutta la sua poesia grida l’attesa di una risposta positiva.

Si possono così individuare tre fattori fondamentali nelle poesie del grande genio di Recanati.

 

Primo fattore: “la sublimità del sentire”

Indica la densità di emozione, di struggimento e di timore enigmatico, causata dalla sproporzione tra l’uomo e la realtà; una sproporzione tragica perché, da una parte, alla grandezza dell’uomo la realtà sembra cinicamente obiettare un limite che dissolve quella grandezza; dall’altra parte, alla vastità del creato, all’imponenza della realtà, corrisponde la piccolezza, l’effimera banalità dell’uomo.

Sta, di memoria solo

E di dolor custode, il simulacro

Della scorsa beltà…

Or fango ed ossa sei…

Così riduce il fato

Qual sembianza fra noi parve più viva

Immagine del ciel. Misterio eterno

dell’esser nostro…

Natura umana, or come,

se frale in tutto e vile,

se plve ed ombra sei, tant’alto senti?”

(da Sopra il ritratto di una bella donna scolpito sul monumento sepolcrale della medesima).

La verità di Leopardi non può essere una negazione, ma è in quel “Misterio eterno dell’esser nostro”, nella domanda finale rivolta alla natura umana.

Il genio è sempre profeta, inesorabilmente espressore di ciò a cui l’uomo è destinato.

E fieramente mi si stringe il core,

a pensar come tutto al mondo passa,

e quasi orma non lascia…

e se ne porta il tempo ogni umano accidente”

(da La sera del dì di festa).

 

Secondo fattore: esaltazione

La sproporzione che l’uomo vive, questo sentimento tragico, agisce riconoscendo nella realtà come una sollecitazione al ‘sogno umano’. La realtà fa sognare l’uomo, lo esalta. L’anima della vita è un respiro sognante.

“Spesso quand’io ti miro

e quando miro in cielo arder le stelle;

dico fra me pensando:

a che tante facelle?

Che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren?

Che vuol dire questa solitudine immensa?

Ed io che sono?”

(da Canto notturno di un pastore errante dell’Asia).

E’ un’esaltazione del sentimento di sé, che rende la vita dell’uomo dominata da una tensione ultima, dalla tensione ad una risposta ultima. E’ il “pensiero dominante”:

“Dolcissimo, possente

dominator di mia profonda mente;

terribile, ma caro dono del ciel;

consorte ai lugubri mei giorni,

pensier che innanzi a me si spesso torni”

(da Il pensiero dominante).

Ma questo pensiero, questo sogno e questa esaltazione, rimangono un sogno, nonostante certi momenti in cui riappare, destando un’esperienza di felicità e di gioia immensa:

“Che paradiso è quello

là dove spesso il tuo stupendo incanto

parmi innalzar!…

Ahi finalmente un sogno

Sei tu dolce pensiero;

sogno e palese error” (ibidem).

 

Terzo fattore: la rimembranza acerba

Allora il contenuto della coscienza di vita che l’uomo ha è una rimembranza acerba: nel cuore della sorgente del piacere scaturisce qualcosa di amaro.

“…e fia compagna

d’ogni mio vago immaginar, di tutti

i miei teneri sensi, i tristi e cari

moti del cor, la rimembranza acerba”

(da Le ricordanze).

Non si dà coscienza umana se non ha dentro questa rimembranza acerba.

Il termine di paragone continuo dell’uomo è la sua giovinezza: è nella giovinezza che tutto sembra un sogno; è il momento più illusivo, ma nello stesso tempo più corrispondente al desiderio e all’attesa che ha l’uomo.

“E già s’accinge all’opra

di questa vita come a danza e a gioco

il misero mortal”

(da La vita solitaria).

Il mondo appare così come ingiustizia:

“gli iniqui petti e gl’innocenti a paro

in freddo orror la vita dissolve”

(da Alla primavera o delle favole antiche).

E la natura si rivela cinica.

Il mondo risulta ripugnante:

“quest’età superba

che di vote speranze si nutrica

vaga di ciance e di virtù nemica;

stolta, che l’util chiede,

e inutile la vita

quindi sempre più divenir non vede”

(da Il pensiero dominante).

 

Ma possiamo compiere insieme a Leopardi altri due passi oltre il “no”, oltre la negazione.

 

Primo passo oltre il no: c’è qualcosa d’altro

“Raggio divino al mio pensiero apparve,

donna, la tua beltà. Simile effetto

fan la bellezza e i musicali accordi”

(da Aspasia).

La tua bellezza, o donna, mi richiama qualcosa di “oltre”, “raggio divino”, così come la musica: un mistero di felicità.

L’uomo allora s’innamora di questa immagine che sta dietro la figura della donna, s’innamora di questa sorgente:

Vagheggia

Il piagato mortal quindi la figlia

Della sua mente, l’amorosa idea,

che gran parte dell’Olimpo in sé racchiude”.

L’uomo confonde così la donna che ha davanti con quell’altra cosa, che però è proprio quella precisa donna a suscitargli. Ad un certo punto la donna si rivela impari a sostenere il paragone con l’immagine che ha suscitato, e allora l’uomo si adira:

“Alfin l’errore e gli scambiati oggetti

conoscendo, s’adira”.

E rimprovera la donna di non capire quello che è successo:

“Ciò che inspira ai generosi amanti

la sua stessa beltà, donna non pensa,

né comprender potria”.

Leopardi afferma dunque che c’è qualcosa d’altro che lo richiama e che ad esso presta il suo omaggio l’uomo.

 

Secondo passo oltre la negazione: il segno

La donna dunque è segno di qualcosa d’altro: significa che afferma una presenza che richiama l’uomo e lo suscita, significa che l’uomo grida e afferma la presenza di qualcos’altro.

Il ‘no’ è una scelta, non è una ragione. La realtà in cui l’uomo vive fa sorgere in lui un mondo, un interrogativo. Sembra essere messo in crisi da quella stessa realtà che lo ha suscitato; ma se un’attrattiva nella realtà rimane aperta, questo significa l’inevitabile affermazione di una presenza, di una risposta ultima.

 

C’è stato un istante della sua vita in cui Leopardi ha riconosciuto questa presenza. Una poesia che è come il clou di tutto il suo itinerario. Leopardi stende il suo inno alla Donna col D maiuscolo, alla Bellezza col B maiuscolo. E’ l’inno a quella amorosa idea che ogni donna gli suscitava dentro: idea amorosa che è intuita come una presenza reale. Si intitola Alla sua donna:

 

Cara beltà che amore

Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,

Fuor se nel sonno il core

Ombra diva mi scuoti,

O ne' campi ove splenda

[o Bellezza che ti nascondi dietro il volto di una donna, o che nascondendo il viso mi appari nel sogno notturno o in uno spettacolo della natura]

Più vago il giorno e di natura il riso;

Forse tu l'innocente

Secol beasti che dall'oro ha nome,

Or leve intra la gente

Anima voli?  O te la sorte avara

Ch'a noi t'asconde agli avvenir prepara?

[dove sei Bellezza che ti nascondi dietro tanti segni?]

 

Viva mirarti ormai

Nulla speme m'avanza;

S'allor non fosse, allor che ignudo e solo

Per novo calle a peregrina stanza

Verrà lo spirto mio.

[Di vederti viva in questo arido suolo non ho più nessuna speranza, a meno che non ti incontri quando il mio spirito verrà ad una dimora ignota]

Già sul novello

Aprir di mia giornata incerta e bruna,

Te viatrice in questo arido suolo

Io mi pensai. Ma non è cosa in terra

Che ti somigli; e s'anco pari alcuna

Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,

Saria, così conforme, assai men bella.

Fra cotanto dolore

Quanto all’umana età propose il fato,

se vera e quale il mio pensier ti pinge,

alcun t’amasse in terra, a lui pu fora

questo viver beato:

[se io, che cerco di immaginarti, riuscissi a trattenere questa immagine saraei già felice]

e ben chiaro vegg’io siccome ancora

seguir loda e virtù qual né prim’anni

l’amor tuo mi farebbe.

[se io tenessi desto l’amore a te, seguirei ancora lode e virtù come quando ero ragazzo]

Or non aggiunse

Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;

e teco la mortal vita saria

simile a quella che nel cielo india.

 

Per le valli, ove suona

Del faticoso agricoltore il canto,

Ed io seggo e mi lagno

Del giovanile error che m'abbandona;

E per li poggi, ov'io rimembro e piagno

I perduti desiri, e la perduta

Speme de' giorni miei; di te pensando,

A palpitar mi sveglio. E potess'io,

Nel secol tetro e in questo aer nefando,

L'alta specie serbar; che dell'imago,

Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.

 

Se dell'eterne idee

L'una sei tu, cui di sensibil forma

Sdegni l'eterno senno esser vestita,

E fre caduche spoglie

Provar gli affanni di funerea vita;

[se Tu, o Bellezza, sei una degli abitabti dell’Iperuranio di Platone, se sdegni di portare gli affanni della nostra vita mortale e perciò te ne stai lassù]

O s'altra terra ne' superni giri

Fra' mondi innumerabili t'accoglie,

E più vaga del Sol prossima stella

T'irraggia, e più benigno etere spiri;

Di qua dove son gli anni infausti e brevi,

Questo d'ignoto amante inno ricevi.

 

E’ stato rileggendo questo brano che mi si è illuminato improvvisamente tutto Leopardi, , perché questa è una sublime preghiera. Mi sono detto: che cosa è questa Bellezza col B maiuscolo, la Donna col D maiuscolo? E’ quello che il cristianesimo chiama Verbo, cioè Dio, Dio come espressione, Verbo appunto. La Bellezza col B maiuscolo,la Giustizia col G maiuscolo, la Bontà col B maiuscolo, è Dio.

Non solo questa Bellezza non ha sdegnato di rivestire le forme caduche, ma è diventato Uomo ed è morto per l’uomo. Non l’uomo ‘ignoto amante’ di lei, ma lei presente, ignota amante dell’uomo.

Il genio è profeta; e infatti questa è una profezia dell’Incarnazione: “Te aviatrice in questo arido suolo io mi pensai”.

E’ il grido dell’uomo che la natura ispira, è il grido, la preghiera dell’uomo a che Dio gli diventi compagno ed esperienza.

Il messaggio di Leopardi è dunque potentemente positivo.